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Washington in guerra: quali le conseguenze dei dazi di Trump?

Nella giornata di ieri il presidente statunitense ha tenuto fede alla sua promessa: introdurre dazi doganali sulle importazioni di metalli negli USA a protezione delle aziende e dei lavoratori del settore.
Questa notizia non dovrebbe coglierti impreparato: dell’imminente arrivo delle tasse su beni d’importazione, ne avevamo già parlato in uno scorso articolo; per leggere di cosa parlassimo già ad agosto dello scorso anno clicca qui.

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Alla fine è successo.

Donald Trump ha da poco siglato un ordine esecutivo che introdurrà un dazio sulle importazioni di acciaio ed alluminio, nella misura, rispettivamente, del 25% e del 10% del loro valore; una decisione istintiva, improvvisa ed in pieno stile amministrazione Trump.

A rimetterci le penne saranno le aziende di quei paesi che esportano acciaio o alluminio negli Stati Uniti ad eccezione, a quanto pare, di quelle di Messico e Canada, i cui governi sembra abbiano reagito così in malo modo al tentativo di imposizione di un dazio proprio da parte del loro principale partner commerciale [USA, Messico e Canada fanno da decenni parte dell’accordo sul libero scambio nord-americano (NAFTA)] che a Washington si è alla fine pensato di escluderli dalla lista dei soggetti incisi dalla nuova tassa per misteriose “ragioni di sicurezza nazionale”.

Quel che lascia sbigottiti dell’azione statunitense non è tanto il fatto di aver introdotto dei dazi – di cui ci si aspettava essere la Cina il bersaglio più ovvio – ma di averli estesi contro partner storici quali: l’Unione Europea, nata al fine di promuovere il libero scambio, gli UK, l’India e tutto il Commonwealth.

Lo show che si è consumato in diretta nazionale con Trump intento a firmare l’atto esecutivo, ha poi toccato il suo apice con la presenza di operai del settore metallurgico in tuta e casco, devoti al loro presidente per aver protetto dalla concorrenza internazionale [unico motivo per cui non abitiamo più nelle caverne] i loro preziosi posti di lavoro.

Chissà se saranno dello stesso avviso fra qualche tempo, quando anche per loro varrà il detto << si stava meglio quando si stava peggio >>.

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Perché ora si sta davvero giocando col fuoco

L’essere ricorsi alla tassazione del commercio internazionale della propria economia è l’inequivocabile sintomo della svolta protezionista ed individualista dell’America sotto l’amministrazione Trump, anticipata già da tempo dalla personale crociata intrapresa contro Cina e Russia.

La prima ha dovuto sottostare a due trattamenti poco lusinghieri: ad agosto è stata ufficialmente incriminata presso il WTO per manipolazione valutaria, a dicembre, invece, si è vista negare dagli USA il riconoscimento dello status di Economia di Mercato cosa che costringerebbe lo Zio Sam a rivedere la politica di anti-dumping e vedersi sommerso da beni a basso costo cinesi.

La seconda, invece, a trattamenti del genere ci ha ormai fatto il callo e non se ne cura nemmeno più … le sanzioni unilaterali americane a danno di Mosca, in vigore dal 2014, hanno avuto l’effetto contrario a quello sperato: la popolarità di quest’ultima è accresciuta, l’isolamento dell’orso russo non è avvenuto, l’Europa si è riscoperta più dipendente dal mercato del Cremlino che di quello statunitense e l’economia nazionale russa si è rafforzata in ogni settore, primario e secondario in testa.

Come più volte saggiamente rimarcato da Jim Rickards nei suoi scritti, le guerre valutarie [l’attuale è in corso dal 2010 e vede il dollaro contrapporsi a yuan ed euro] sfociano in confronti commerciali e, da quest’ultimi, la strada verso un conflitto armato fra le parti è tutta in discesa.

<< Agli inizi del Novecento le guerre valutarie si susseguirono come le tessere di un domino, la cui prima a cadere fu quella innescata dalla celebre iperinflazione nella Repubblica di Weimar (1921–1923) alla quale seguì la svalutazione del Franco francese (1925) e della sterlina britannica (1931), nonché del dollaro statunitense (1933) e, di nuovo, di Franco e Sterlina. (1936).

Grossomodo nello stesso periodo, si scatenò una guerra commerciale su scala globale innescata dall’introduzione dei dazi USA su una gran varietà di prodotti d’importazione (Smoot-Hawley Act, 1930) ed alimentata dalla successiva comparsa dei dazi doganali dei partner traditi dalla mossa di Washington.

Tra 1929 e 1932, il commercio mondiale subì un crollo del 66%.

Cominciarono a materializzarsi conflitti a destra e a manca: dopo le invasioni giapponesi di Manciuria (1931) e Pechino (1937) e l’invasione tedesca della Polonia (1939), il mondo si ritrovò impantanato tra le fiamme della Seconda Guerra Mondiale. >>

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Chi la fa…

Quello che spesso sfugge a chi loda le tariffe o le svolte protezioniste è che: come puoi imporre un dazio a qualcuno, anche quel qualcuno può importi un dazio a sua volta. E’ questo il punto da cui sgorga tutta l’ingenuità dei tweet del presidente statunitense in cui afferma che le trade war sono giuste e pure facili da vincere.

Infatti la risposta è stata unanime: se non dovessero tornare sui loro passi, gli Stati Uniti si ritroverebbero circondati da dazi di rappresaglia messi in atto da tutte le nazioni che hanno danneggiato per amore dell’alluminio nazionale.

La Cina si è già detta pronta a rispondere con immediatezza alle misure prese dagli Stati Uniti andando a colpire molteplici prodotti che le aziende americane esportano in Cina: prodotti agricoli, metalli, vestiario e via dicendo.

Dall’altra parte dell’Atlantico, invece, lo scandalo ha già lasciato il posto a complesse macchinazioni di vendetta tra cui il ricorso al tribunale del WTO e l’apposizione di dazi su whiskey e le iconiche Harley Davidson: può essere visto come un modo per togliersi qualche sassolino dalla scarpa per quegli assurdi dazi sulle banane importate dai caraibi, boccone che nel 1999 la UE fu costretta ad ingoiare per volere delle viziatissime multinazionali statunitensi.

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Quali conseguenze ci attendono? 

In definitiva, a cosa portano i dazi? Vista la fase storica che stiamo attraversando, sicuramente a nulla di buono.

I dazi com’è probabile si moltiplicheranno e verranno imposti su numerose categorie di prodotti, diminuendo il commercio e facendo sì che la zappa cada [e quando mai non lo fa] sui piedi dei consumatori. Applicare un dazio equivale a tassare un bene straniero, a diminuire l’offerta totale e quindi ad alzare il prezzo del bene tassato sul mercato: significa far stare peggio i consumatori che continuano a comprarlo o a vedere le loro abitudini di acquisto cambiare in modi imprevedibili [e non è detto che cambino per il meglio].

C’è anche un altro aspetto da dover considerare: i lavoratori del paese i cui beni, una volta esportati, vengono tassati.

Nel 1999 gli USA, in risposta ai dazi degli europei, applicarono una tariffa sul cashmere scozzese; se non fosse stato per un ridimensionamento dei toni all’ultimo minuto, una tariffa di qualche centinaio di migliaia di dollari avrebbe eliminato ben 700 posti di lavoro nel solo comparto tessile scozzese.

Non c’è ragione di credere che questi dazi non portino ad un aumento dei prezzi: anzi, è probabile che sfocino in un aumento nei tagli dei costi aziendali che, tradotto, si riducono a tagli di personale e stipendi.

Le trade war portano appunto questo: l’esasperazione di aziende e lavoratori [quest’ultimi, cosa da non dimenticare, sono anche consumatori].

Chi pensa di fare del bene rallentando il commercio, mezzo che, quando promosso, ha permesso alla civiltà umana di fiorire in ogni epoca storica, dovrebbe fare mente locale.

In una situazione diplomatica e creditizia estrema come quella in cui ci troviamo, con politiche monetarie improvvisamente restrittive e tassi in rialzo, un dazio non è una chiacchiera da bar: è un altro segnale che lampeggia sul cruscotto del metallo prezioso più famoso e redditizio di sempre: l’oro.

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2 risposte

  1. Effettivamente è difficile capire in cosa sperino realmente gli elettori di Trump, pensando di riportare indietro il tempo a lustri lontani.
    Del resto non si possono escludere episodi simili anche tra Stati
    Europei.
    Le guerre commerciali vanno a vantaggio dei produttori locali?
    Forse, ma è difficile che avvenga lo stesso anche per i consumatori.
    La nostra esperienza storica di autarchia negli anni ’30 non portò a grandi risultati se non quello di sviluppare un’industria di armamenti che ha rifornito di catorci il regio esercito durante la seconda guerra mondiale.
    Beh, non vedo tempi molto felici davanti.
    I

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