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Europa contro Stati Uniti: il vero volto del libero mercato di Washington

Ad inizio di questo mese, Trump ha fatto ricorso alla Sezione 301 dello U.S. Trade Act 1974 secondo cui il Presidente ha il diritto di prendere tutte le azioni necessarie, incluse sanzioni economiche verso paesi terzi, per rispondere alle pratiche scorrette che violino il libero scambio o ledano il commercio internazionale statunitense.

Dal momento dell’annuncio si è scatenato il panico: un misto tra il “si salvi chi può” e l’ “ognuno per sé” davanti a cui non si può non domandarsi a quale basso livello sia giunta l’integrità morale dei Paesi facenti parte dell’Unione Europea.

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In un primo momento, la dichiarazione di voler introdurre dazi sui prodotti importati da Oltreoceano non ha destato scalpore nel Vecchio Continente.

Tutto nella norma, avranno pensato: sono anni che da Washington impongono dazi e sanzioni ad altre nazioni per persuaderle ad adottare politiche più remunerative per tutti (in particolare per gli USA).

Lo scandalo è scoppiato quando, ascoltando meglio le parole della Casa Bianca, i falchi di Bruxelles si sono accorti di essere stati  buttati nella mischia assieme a tutti coloro che sono stati colpiti dalle tariffe: trattati alla stregua di un qualsiasi altro poveraccio.

<<Vada al diavolo il libero mercato, l’importante è che i sanzionati non siamo noi!>>

Dalle nostre parti funziona così, non dovremmo più sorprendercene: tutto va bene, a meno che non siano lesi gli interessi personali. A suffragare questa ipotesi c’è proprio la reazione dei paesi europei alla notizia dei dazi: disunita, incorente ed egoista.

Il perché ce lo spiega il fatto che la storia della contrattazione delle esenzioni dai dazi, abbia preso due pieghe diverse:

La prima riguarda il blocco continentale europeo che ha tentato di mediare una soluzione cercando di farsi depennare dalla lista dei soggetti colpiti. Dopo essere stati malamente rifiutati, hanno mandato a farsi friggere la diplomazia e sono corsi a stilare la loro di lista: quella dei beni made in USA che verranno tassati appena sbarcheranno sulle coste da questa parte dell’Atlantico.

Nella bozza dell’elenco sono enumerati:

  • cereali per la colazione,
  • utensili da cucina,
  • vestiario e calzature,
  • elettrodomestici,
  • prodotti tessili,
  • wiskhey,
  • Harley Davidson,
  • batterie
  • imbarcazioni.

Non è escluso che la lista si allunghi non appena si comincino a sentire gli effetti dei dazi di Trump sull’economia reale, in vigore dal 23 marzo 2018.

L’europa insulare invece –il Regno Unito–, che sta per apprestarsi a celebrare i 2 anni dal referendum in cui la popolazione ha chiaramente espresso il voler uscire dall’UE senza che ancora alcun passo concreto in questo senso sia stato fatto, ha prontamente voltato le spalle ai suoi cari amici europei chiarendo che l’esenzione dai dazi l’avrebbe contrattata con i cugini statunitensi separatamente dal resto dell’allegra combriccola.

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Ma non eravamo amici?

La situazione è tragicomica.

Gli Stati Uniti, protettori benevoli dell’Europa, impegnati ad assicurargli sicurezza militare da fantomatiche invasioni russe da una parte e l’indipendenza energetica attraverso l’ostacolamento dell’oleodotto Nord Stream II dall’altra [sì, è un controsenso ndr], proprio nel bel mezzo di un delicato confronto con le potenze emergenti di Russia e Cina decidono di tirare un diretto tra le costole dei loro vecchi alleati.

E questi, riconoscenti, non battono ciglio nel ricambiare sotto la cintola e con gli interessi. Un rapporto maturo, tra soggetti che possono fare totale affidamento l’uno sull’altro. Gancio assestato quando, poi?

Proprio quando Macron, sospinto da venti di antica grandeur francese, e la Merkel, al comando del più instabile governo tedesco dalla caduta del Muro, parlano di aumentare l’accentramento di potere in quel di Bruxelles per formare una Difesa Comune Europea.

Il ché renderebbe la NATO, fondamentale strumento di politica estera di Washington, pressocché inutile e superata.

Per gli USA, una prospettiva inammissibile.

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Scusa…Nord Stream che cosa?

Puntuali come un trenino della valle svizzero, i dazi ed il conseguente rifiuto della Casa Bianca di escludere i 27 di Bruxelles dalle sanzioni, giungono in un momento cruciale per l’Europa anche sotto un altro punto di vista: quello della finalizzazione del progetto per l’oleodotto Nord Stream II che permetterebbe all’Europa di importare gas a bassissimo costo dalla Russia.

Apriti cielo!

<<il nostro obiettivo è quello di preservare la sicurezza energetica europea assicurando al continente l’indipendenza dai russi.>> si legge in una dichiarazione statunitense.

Poi, che quell’oleodotto rappresenti la vera sicurezza energetica europea negli inverni sempre più rigidi che la colpiscono, non importa: è inimmaginabile che Mosca tolga il pane di bocca a Washington.

Il gas americano dev’essere trasportato via nave per tutto l’Atlantico e, una volta arrivato a destinazione, dev’essere raffinato una seconda volta: un processo costoso che si ripercuote senza troppi fronzoli sulle nostre bollette.

Sorge quindi spontanea una riflessione: non è che globalizzazione e concorrenza sono promosse da Washington solo quando davvero le conviene?

Lascio a te l’incombenza di dare una risposta a questa domanda.

Mi permetto, però, di aggiungere un ultimo fatto interessante: la Turchia, da un po’ in rotta con il principale attore NATO,  ha espresso il desiderio di acquistare apparati di difesa privi di componenti statunitensi: più economici e, a quanto pare, addirittura più efficaci.

Ancora una volta dallo Studio Ovale è giunta una risposta piuttosto seccante ed infantile: chi acquista sistemi difensivi di altre nazioni, in particolare russi o cinesi, dovrà accettarne le conseguenze e sopportare nuove sanzioni.

E’come se uno che ha sempre acquistato BMW passasse per una volta all’Alfa Romeo e da Stoccarda gli tagliassero la luce per 6 mesi come rappresaglia.

Inaudito.

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21 trilioni di questi giorni!

Questo atteggiamento da parte degli Stati Uniti è tuttavia condivisibile: c’è poco da stare allegri di questi tempi.

Il debito pubblico USA ha raggiunto l’esorbitante cifra di  21 trilioni di dollari giusto un paio di giorni fa. Facendoci due conti, l’ultimo trilione di dollari si è aggiunto tra settembre e marzo: in soli 6 mesi!

Detto in altro modo: tenere in vita gli Stati Uniti costa 2 trillioni di dollari l’anno, cioè pari al fatturato di dieci Apple.

Hai letto bene: ad oggi, l’apparato governativo statunitense costa in un solo anno più di quanto Apple –  Mecca dei migliori ingegneri, designers, managers della Silicon Valley – riesca a guadagnare col sudore della loro fronte in 10 anni di attività.

Il mistero di come sia possibile che ci sia ancora qualcuno che acquisti bond USA con la fiducia che valgano ancora qualcosa e siano presto ripagati traendone anche profitto, è irrisolto.

C’è anche un altro motivo per cui non è proprio un bel momento in casa dello Zio Sam ed è di tipo politico:

mentre in Cina Xi si fa nominare presidente a vita della Repubblica Popolare ed in Russia la rielezione di Putin è pura formalità, nella squadra di governo di Trump continuano a volare teste senza che si formi un vero gruppo di lavoro, in Austria il baby-premier eletto ha chiaramente sposato linee di pensiero (prima la nazione poi l’Europa) molto simili a quelle di Orban in Ungheria, in Italia le elezioni hanno lasciato spazio ad un buco pieno di incertezza che assomiglia tanto a quello tedesco di fine 2017 ed a quello spagnolo, paese rimasto senza esecutivo per mesi prima della rivolta catalana.

L’ordinamento mondiale, ad ogni suo livello, sta cambiando sotto i nostri occhi dopo interi decenni di stasi.

La corsa allo scettro statunitense è nel vivo e, usando il gergo yankee per non essere fraintesi, il blocco dei challengers è molto più solido di quello dei defenders, che conta sempre più crepe.

Non era proprio il momento di deliziarci con questa sciocchezza delle tariffe sulle importazioni, non crede Mr. President?

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