Londra, 1676.
Tra le mura dei palazzi sporchi di fuligine e gli odori acri caratteristici di quel secolo a cavallo fra l’antico ed il moderno, per le strade della capitale del giovane impero britannico, avanzano concitatamente dei carretti sgangherati, stracarichi di mercanzie provenienti dal misterioso Oriente.
I ritmi delle grigie e piovose giornate inglesi, sono oramai scanditi dal continuo via vai di muli, cavalli e carri che si alternano fra mercati e le banchine del porto.
Sono già passati 76 anni da quando, nel giorno della sua istituzione, alla Compagnia britannica delle Indie Orientali era stato concesso il monopolio dei commerci coi possedimenti d’oltremare britannici.
Il bisogno di metalli preziosi per espandere la base monetaria e soddisfare la crescente domanda di moneta sostenuta dal commercio, porta Moses Mocatta a creare la prima buillion bank britannica, che, appoggiata dalla Compagnia, iniziò a commerciare oro con le Indie.
Ad oggi, la banca che Mocatta costituì è ancora al suo posto: la ScotiaMocatta avrà anche cambiato denominazione e proprietari ma occupa saldamente dal 1732 il suo posto tra gli associati della LBMA di Londra.
Sintomo che quello del commercio preziosi è uno di quei settori a cui il pane non manca mai ed è anche quello da cui è necessario aspettarsi dei cambiamenti: soprattutto dopo 285 anni di stasi gerarchica.
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Nei libri di storia economica ci si limita a snocciolare due o tre date e qualche nome altisonante e complicato da pronunciare.
In quelli di finanza, ci si dilunga quel poco di più a decantarne le qualità, i meriti e la proverbiale stabilità.
Nei convegni di oggi, lo si deride e lo si bolla come antiquato, inutile, sorpassato.
C’è chi, addirittura, afferma che sia impossibile da ottenere e che, anzi, sia instabile e inadatto alla crescita economica – il che dimostra di non aver letto nemmeno la prefazione dei libri accennati poco sopra –.
Checché se ne dica, il Gold Standard rimane, tra tutti, il miglior sistema monetario di cui l’uomo si sia mai servito.
A testimonianza della sua stabilità, nell’era dell’impero britannico, il benchmark oro/pound – il prezzo dell’oro in sterline – venne fissato a 4,75 sterline l’oncia dalla zecca reale inglese (Royal Mint) e da quel livello non si schiodò di una virgola per ben due secoli.
A dare il benestare per quel prezzo, fu l’allora Master of the Mint in persona: un certo Isaac Newton.
Il fatto che il fixing fra oro e sterlina rimase stabile per così tanto tempo, indica due cose.
La prima è che, se beccato il giusto livello di prezzo, il gold standard non porta ad apocalissi deflazionistiche o inflazionistiche come tanti affermano ed anzi, promuove il commercio e lo sviluppo – basti pensare al crescente volume di scambi, all’aumento della domanda ed all’aumento della produzione tra il XVII e XIX secolo che questo sistema monetario ha dovuto sorreggere –.
La seconda è che Londra, dopo esser stata il centro monetario globale dal 1700 fino alla Prima Guerra Mondiale – per poi cedere lo scettro a Washington dal 1944 in poi –, è ancora il centro più importante al mondo per la quotazione dell’oro e lo scambio di oro fisico.
E lo è da più di 250 anni.
In tutto questo tempo, di cose ne son successe.
La procedura di fixing avviene ora per via telematica e non più di persona, molti altri buillion exchange sono stati istituiti in giro per il mondo (New York, Shanghai, Singapore, Hong Kong, Tokyo), nuovi strumenti (futures e derivati) sono stati introdotti e nuove finestre per la contrattazione (OTC – negoziazioni personalizzate fuori orario di mercato) istituite.
Tutto questo trambusto, divenuto particolarmente evidente negli ultimi decenni, avrà di certo ripercussioni sull’importanza rivestita dalla LBMA nel settore dei preziosi, stando a quanto afferma una pubblicazione del magazine online Bloomberg Businessweek.
In effetti, la maggior trasparenza del Comex, l’arrivo di futures denominati in più valute e lo spettro Brexit che minaccia di far riposizionare gli uffici delle grandi banche – comprese le buillion – in altre città europee, giocano a sfavore della città di Sua Maestà.
Ci si mettono poi anche le istituzioni, che promuovono – dopo i casini del 2008 – una rinnovata trasparenza e responsabilità da parte dei brokers e degli istituti finanziari attraverso regolamentazioni quali Basilea III ed il MiFID II – in vigore da gennaio 2018 – che avrebbero però, come effetto collaterale, quello di dover aumentare i costi delle transazioni OTC di cui Londra è leader e far drenare un po’ di liquidità in altre piazze.
Se a qualcuno scappasse da ridere nel leggere pericolosamente vicine tra loro le parole trasparenza, responsabilità e istituti finanziari, nulla di grave, è normale.
Con un ritardo di 10 anni, un rischio sistemico esponenzialmente aumentato, un florido mercato dei derivati ed un sistema bancario “ombra” totalmente deregolamentato in cui va a finire il meglio degli strumenti spazzatura ideati negli ultimi anni, una bella stretta selvaggia alla gola dei mercati ci vuole proprio.
Curioso che su Bloomberg non si accenni minimamente agli ultimi sviluppi da parte cinese e men che meno si alimenta il dubbio che probabilmente, l’oro venduto alla Cina e che – cito testualmente – <<… i cinesi sono abituati a prendere in consegna sotto forma di oro fisico >> sia proprio quello <<…ben stipato in caveaux segreti di Londra per l’ammontare di 7000 tonnellate >> poi lavorato in Svizzera e spedito in Oriente.
Nel 2018, in cui si addensano tantissime importanti scadenze – MiFID II, aumento dei tassi della FED, nuova politica di sostenimento della BCE, entrata a regime dei mercati buillions cinesi, decisioni operative della banca centrale cinese sullo yuan –, vedremo se Londra sarà capace di mantenere il suo scettro ultra centenario o, in caso di perdita, se se lo farà scivolare regalmente di mano oppure scippare in malo modo.
In qualsiasi caso, il prezzo dell’oro, non potrà esimersi dallo sperimentare forti scossoni.
Simili a quelli di uno stracarico carretto della Compagnia delle Indie, a Londra, nel 1676.
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