ricchezza nel tempo

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L’Arabia Saudita al bivio fra Trump e le alleanze di Putin

Deserto di Dhahran, Arabia Saudita orientale, 1938.

Una pompa petrolifera Big Texan – come quelle che si vedono nei film – oscilla instancabile sbuffando sabbia e detriti.

L’aria immobile del deserto amplifica i cigolii di quella strana macchina che, assieme alle sue colleghe, da oramai 4 anni caratterizza il paesaggio saudita.

La Standard Oil & Co., giunta dalla lontana California, è riuscita a strappare alla famiglia reale locale un permesso di trivellazione valido fin dai primi anni Trenta; un permesso che oggi, come 83 anni fa, sta di nuovo scrivendo la Storia.

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All’inizio della prima metà del Novecento, la febbre del petrolio impazzava: scoperte le potenzialità degli idrocarburi raffinati nella seconda metà del 1800, i governi europei ed americano si erano messi alla disperata ricerca dell’oro nero, coscienti dei vantaggi bellico-industriali che gli avrebbe potuto assicurare il controllo degli approvvigionamenti di quest’ultimo.

Una volta terminata la Grande Guerra, era oramai chiara a tutti l’importanza di accaparrarsi le licenze d’uso di quanti più giacimenti si riuscissero a scoprire in terra straniera.

Al 1938, i pozzi di Iran ed Iraq erano già stati allocati a prominenti compagnie occidentali e per coloro rimasti ancora a bocca asciutta, si preannunciavano tempi duri: bisognava espandere il proprio campo di ricerca e, di conseguenza, i costi.

E così, dopo anni di vani e dispendiosi tentativi, quel 3 marzo 1938 gli sforzi della Standard Oil vennero premiati: la prima goccia di petrolio delle aride terre saudite veniva estratta, incrementando enormemente il peso che quella penisola posta fra Mar Rosso e Golfo Persico avrebbe giocato, da quel punto in avanti, sullo scacchiere mondiale.

La Storia, per l’Arabia Saudita, prese l’aspetto di una lunga, tranquilla discesa.

L’alleanza fra Stati Uniti e famiglia reale saudita, anche per mezzo della Standard Oil, fu cosa naturale: venne sugellata dall’apertura dell’Arabic American Oil Corporation – oggi ARAMCO – che a partire dal 1944 cominciò ad operare in esclusiva sul territorio nazionale saudita.

Conclusasi la Seconda Guerra Mondiale, le prospettive continuavano ad essere rosee: decine di Paesi sfiniti dalla guerra necessitavano disperatamente di fonti energetiche per avviare la ricostruzione. Ciò significava grandi affari per le compagnie petrolifere e generose commissioni per i paesi possessori dei giacimenti.

La cosa assunse poi tutto un altro livello con l’apertura di istituzioni sovranazionali per l’abolizione delle barriere al commercio internazionale (GATT e Fondo Monetario) e per la negoziazione di concessioni, prezzi e ratei produttivi del petrolio (OPEC, 1965), che spianarono la strada ad oleodotti e petroliere.

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Kissinger ed il petrodollaro

Come molti dei nostri followers più accaniti ricorderanno, il Bretton Woods standard era già in essere a quell’epoca ed il dollaro la faceva da padrone, perché unica valuta connessa e scambiabile – eccetto per gli statunitensi – con l’oro.

Le immense riserve di oro degli Stati Uniti, riempitesi grazie agli acquisti incessanti di derrate alimentari ed armamenti durante la Guerra provenienti dall’Europa, erano la principale garanzia di fiducia nel potere d’acquisto del dollaro e da esse quest’ultimo dipendeva.

Negli anni successivi al 1945 la struttura economica statunitense cominciò a cambiare drasticamente e da paese esportatore, diventò importatore netto di quegli stessi beni a bassa tecnologia che in precedenza erano stati prodotti su suolo americano.

Sorprese della delocalizzazione.

I dollari divennero la valuta più diffusa nella storia dell’Umanità: le importazioni faraoniche, gli investimenti ed i confronti con la sfera sovietica moltiplicarono a dismisura i dollari in circolazione, mentre la parità con l’oro continuava a rimanere ancorata a 35 dollari l’oncia.

Il dollaro, di fatto, divenne altamente sopravvalutato.

L’inflazione cominciò a farsi sentire nei confronti delle altre valute ed i più accorti possessori di dollari – la Francia di De Gaulle ne è un esempio – cominciarono a realizzare cosa fossero in realtà quelle banconote: inutile carta, seppur verde e finemente decorata.

Cominciò quindi una corsa alla riscossione dell’oro custodito presso i forzieri della Federal Reserve americana. Alla corsa, negli anni della formazione dell’OPEC, si unì, molto più in sordina di quanto avessero fatto i cuginetti d’oltrAlpe, l’Arabia Saudita.

Il dollaro, messo alle strette dal Tesoro statunitense – che continuava a produrne e spenderne in quantità –, dalla diminuzione delle riserve auree e dalle pressioni ribassiste provenienti dal mercato dei metalli di Londra, cominciò a vacillare.

Nel 1971, Nixon, accartocciò gli accordi di Bretton Woods e li buttò dalla finestra.

Dal giorno alla notte, il dollaro non doveva più dimostrare al mondo di essere buono quanto l’oro ed il sistema monetario fu stravolto.

Il prezzo in dollari dell’oro aumentò, negli anni a venire, più di 10 volte.

Il suo movimento confermò i sospetti di quanto la fiducia nel biglietto verde fosse esagerata ed in un certo senso, mal riposta.

La botta si sentì. Il dollaro s’indebolì parecchio in quegli anni e nel 1973 la Guerra dello Yom-Kippur, parte del conflitto arabo-israeliano combattuto a più riprese dal 1967, fornì un’ottima occasione ai sauditi per manifestare il loro dissenso all’alleato a stelle e strisce: da dollari buoni per riscuotere oro, gli USA erano passati a scaricare vagonate di bigliettini verdi in perenne svalutazione.

Avvenne così, il primo shock petrolifero.

Le code di automobilisti che si formarono in prossimità di ogni pompa di benzina della costa orientale degli Stati Uniti furono d’ispirazione: il petrolio era divenuto indispensabile nella vita di tutti i giorni, perché allora non connetterlo al dollaro?

L’idea fu messa in pratica nel 1974, quando l’allora Segretario di Stato Henry Kissinger negoziò con i reali sauditi un patto: godere della piena protezione statunitense, nonché dei prodotti ad alta tecnologia da essi prodotti, in cambio della vendita di ogni singola goccia di petrolio estratta in Arabia Saudita condotta esclusivamente in dollari.

L’accordo avrebbe permesso all’Arabia Saudita di guadagnare dei lauti interessi sui conti correnti bancari americani in cui avrebbero depositato i petrodollari ricavati dalla vendita di petrolio, mentre gli Stati Uniti avrebbero potuto rigirare in prestito queste somme a paesi in via di sviluppo e, al tempo stesso, garantirsi una domanda di moneta costantemente crescente.

Nel primo caso, i prestiti emessi ai paesi in via di sviluppo avrebbero innescato un circolo virtuoso per l’economia USA – incasso degli interessi sul debito, profitti sui prodotti che questi paesi venivano obbligati a comprare dagli USA –

Nel secondo caso, il rimborso del debito pubblico statunitense sarebbe stato agevolato attraverso la creazione di una naturale inflazione di fondo.

Ad ogni modo, se l’accordo non fosse andato in porto, l’opzione militare contro l’Arabia era già stata approntata.

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Il ruolo dell’Arabia Saudita oggi

Oggi il dollaro è tornato a vivere una fase di sfiducia nei propri confronti: un processo di lenta marginalizzazione che lo porterà ad abdicare lo scettro di valuta di riserva mondiale e, probabilmente, ad implodere su sé stesso.

Cosa venga dopo, se gli SDR del Fondo Monetario, un gold standard basato sullo yen, una criptovaluta o un misto di queste possibilità, non lo si può ancora sapere.

Sappiamo però che:

  1. la Cina sta facendo in modo tale per cui, nel breve termine, gli esportatori di petrolio siano inclini ad accettare lo yuan cinese convertibile in oro sul mercato di Shanghai ed a proteggersi dal rischio di fluttuazione con i futures yuan-oro appena sfornati;
  2. la Russia ha già sposato questo progetto vietando di recente l’uso dei dollari nei propri porti commerciali ed avvicinandosi al mondo delle criptovalute, nonché guadagnandosi il favore dei governi siriano ed iracheno e costruendo nel contempo una fruttuosa alleanza con Iran ed Egitto;
  3. il Venezuela – paese seduto sul più grande giacimento di petrolio oggi conosciuto e settimo esportatore al mondo –, temendo di fare la fine della Libia post-Gheddafi, si è aggregato al trenino, condannando i dollari all’oblio.

E l’Arabia?

L’Arabia Saudita, da sempre alleato statunitense, versa ora in una crisi nera ideologica quanto di potere.

Il legittimo erede al trono è stato messo, a quanto afferma il The Asia Time, ai domiciliari ed è stato sostituito dal suo secondo, che sta molto meno simpatico agli Stati Uniti.

Dopo i vari fiaschi del fronte dei fedelissimi alla causa statunitense, l’allontanamento progressivo della Turchia dalla Nato, la disastrosa campagna saudita in Yemen, la crisi col Qatar e il riconoscimento dell’Iran come potenza regionale da parte di Obama, tra il blocco sino-russo e quello americano, dalle parti di Riad e del nuovo inquilino del palazzo reale, le simpatie vanno tutte ai primi.

E in quest’ottica potrebbe essere letta la concessione del permesso di guida alle donne nella ultra-conservatrice Arabia Saudita: un babbà altamente alcolico per addolcire la visita del Re saudita alla Casa Bianca proprio mentre l’erede al trono, inviso ai piani alti statunitensi, se ne andrà a far pubbliche relazioni in quel di Mosca in ottobre.

Perché tutto questo movimento?

L’ultima notizia è di quelle al fulmicotone: la famosa ARAMCO, per volere del duo Re-Principe, è in vendita.

O meglio, lo sono parte delle sue azioni.

Per le ormai ovvie ragioni monetarie, l’America è interessatissima; Rosneft, il gigante russo dell’energia, anche.

Tra l’altro, sarà interessante sapere dove l’Offerta Pubblica Iniziale avrà luogo: il NYSE non è stato scelto di default come ci si aspettava.

L’Arabia gioca di nuovo a fare l’ago della bilancia del sistema monetario, come fece 83 anni fa e di nuovo nel 1974.

Su ZeroHedge ci si chiede chi, fra Putin e Trump, saprà offrire le condizioni più vantaggiose per accaparrarsi l’eredità di quella antica licenza concessa alla Standard Oil all’inizio del secolo scorso: la posta in gioco è immensa, i capitali, gli intrighi e i conti in sospeso innumerevoli.

Come scritto nell’articolo appena linkato, aspettiamoci di tutto d’ora in avanti: chi ha più da perdere non sarà disposto a giocare secondo le regole.

Il Game of Thrones d’Arabia sta per vivere il finale di stagione più caldo dell’intera serie.

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Staff DeshGold

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2 risposte

  1. credo, osservando i mercati da diversi anni, che il petrolio non sia più l’oro nero o l’ ago della bilancia negli anni a venire. chi detiene la maggior parte di litio al mondo? quali sono i titoli a maggior rendimento sui listini azionari? gli usa e il dollaro sono finiti ma i produttori di pannelli solari asiatici correranno a più non posso. e sì la cina detiene le più grandi riserve di litio al mondo e presto la bolla Tesla esploderà confermando che le energie alternative sono il futuro ma che gli usa non hanno le materie prime per affrontarlo. comunque per stare sul sicuro continuate a comprare oro che vi farà cadere sicuramente in piedi e molto più ricchi.

  2. Il re saudita VA a Mosca principalmente per siglare l armistizio per la guerre che ha Perso in siria il resto sono affari che si fanno quando non si e piu in guerra. Chi compra oro FA sempre bene ma deve farsi anche bene i propri Conti !!! SE di quei danari che ha accantonato in oro dovesse aber bisogno bei prossimi 7/8 anni dovra confrontarsi con il Dilemma …….. !! Esempio : chi avesse acq nel 2010/11 con necessita di vendere oggi o trat un anno che perdita ha collezionato ?? E trat 5 anni che Garantie CI sono visti i precedenti per un onesto profitto ?? Tutte le date rilasciate qui per la ripresa inarrestabile die prezzi sono andate in fumo percio non CI sono certezze o studi che tengano per il futuro. Solo la lotteria !!!

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